Nà Voce Nà Chitarra e 'o 'Poco e Web..

Fin dall’inizio del ‘900 la canzone italiana, a un certo punto, si è trovata davanti a un bivio, peraltro finendo poi per percorrere parallelamente entrambe le strade: da una parte il canto impostato, virtuosistico, potente e melodrammatico, condizionato dalla tradizione della romanza operistica (un esempio per tutti: Enrico Caruso); dall’altra un modo di cantare più misurato, più leggero, nonché un modo diverso anche di comporre, più narrativo e intimista (nomino due modelli: un cantautore, Armando Gill, e un cantante, Gennaro Pasquariello). Cominciate col prender nota che, guarda caso, gli esempi citati sono tutti napoletani. Al secondo filone arrivò poi un grande sostegno dall’America, quando, grazie all’uso del microfono, si sviluppò il fenomeno dei crooner, cantanti “confidenziali” che non avevano più bisogno di buttar fuori quanta più voce possedevano, ma anzi potevano risultare tanto più espressivi modulando morbidamente la voce anche solo con dei sussurri, con accenni complici, sommessi, appena allusivi, quasi recitando. In Italia il luogo più significativo di questa evoluzione fu appunto Napoli, specialmente quando tra anni ‘40 e ‘50 si moltiplicarono degli eleganti cantanti-chitarristi, dalla vena jazzata, che “co’ ‘na voce fina fina” seppero asciugare la canzone napoletana (e non solo) liberandola dagli orpelli e dall’enfasi melodrammataica, per restituirne la vera profonda essenza lirica e melodica, solo decorata di nuove soluzioni armoniche alla chitarra. Stiamo parlando di artisti come Roberto Murolo, Fausto Cigliano, Armando Romeo… e Ugo Calise.

  

Il quale, lo so, era nato in provincia di Campobasso, ma da genitori napoletani (uno di Ischia, l’altra di Casamicciola), e a Napoli aveva studiato e avviato il mestiere di musicista. Calise aveva un plusvalore rispetto agli altri: più degli altri era anche un autore, sia di testi che soprattutto di musiche, un compositore prolifico e raffinato, di stile europeo, anzi intercontinentale.

Avendo avuto la ventura di vivere la mia infanzia negli anni ’50, devo dire che canzoni ascoltate allora alla radio come Nun è peccato, Uè uè che femmena o la programmatica Na voce, na chitarra e ‘o poco ‘e luna, eseguite appunto “cu’ ‘na chitarra e ‘nu filillo ‘e voce”, tra slow e beguine, hanno plasmato in me un gusto e una sensibilità che sono poi esplose in maniera conclamata con la scoperta dei grandi cantautori anni ’60 (e generazioni successive), ma, per così dire, senza soluzione di continuità. Negli uni e negli altri c’era comunque la stessa intenzione di raccontare i propri sentimenti in maniera garbata, di aprire all’ascoltatore il proprio mondo intimo con semplicità, pudore e realismo. Di tutto ciò sarò sempre grato anche a lui, a Ugo Calise.

Enrico de Angelis

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